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Come sopravvivere al dolore e ritrovare se stessi: dal film La vita di Pi

Come sopravvivere al dolore e, più in generale, alle tempeste della vita? Ai momenti davvero duri?

Quando viviamo in preda all’ansia, alla rabbia, risucchiati nel vortice di relazioni difficili.

Quando ci ritroviamo a subire una situazione che non abbiamo scelto come, ad esempio, la fine di una relazione importante.

Queste sono alcune delle domande che spesso, velatamente o con grande disperazione, mi portano i miei pazienti in studio.


“Dottoressa, ma cosa devo FARE? Come sopravvivere al dolore?”

E lì comincia la scommessa e il lavoro del costruire, insieme, una risposta alla domanda sul come sopravvivere al dolore. Già, costruire.

So che, in questo modo, disilludo le aspettative un po’ magiche di chi crede che esista la risposta giusta e che prima o poi, colui che la detiene, ce la rivelerà.

Ma non è così, aimè.


Perché un fare precostituito e generalizzato non esiste.

Ognuno troverà il suo modo, con il grande vantaggio di sperimentare la vera libertà. La visione del film La vita di Pi aiuta a cogliere alcuni passaggi importanti di questo viaggio all’interno di sé.


Il film

La vita di Pi: come sopravvivere ad un dolore e ritrovare se stessi

Il film narra la storia di Piscine Molitor Patel (detto PI), un ragazzo indiano che, a causa delle condizioni sociali dell’India degli anni ’70, sarà costretto ad emigrare in Canada, con la sua famiglia e gli animali dello zoo di proprietà. Ma durante la traversata dell’oceano una tempesta li sorprende provocando il naufragio del mercantile.

Pi perde tutto. La madre, il padre e il fratello maggiore. La sua reazione è un esempio di come sopravvivere al dolore e ritrovare se stessi.

Su una scialuppa di salvataggio trascorrerà 227 giorni, sopravvivendo a piogge torrenziali, pericoli marini e numerose disavventure. Ma Pi non è solo. Inizialmente condividerà la piccola imbarcazione con alcuni animali sopravvissuti al naufragio: una iena, una zebra, un orango e Richard Parker, un’enorme tigre del Bengala.

Inizia l’avventura, un viaggio surreale caratterizzato da una meravigliosa fotografia dal tratto onirico e suggestivo che travolgerà lo spettatore, in una lotta per la sopravvivenza.


I risvolti psicologici di Pi e la sua reazione

Pi dovrà misurarsi con la profonda impotenza, tipica sensazione di quando  subiamo una condizione che non abbiamo scelto. Sotto i suoi occhi terrorizzati si consumerà l’uccisione, ad opera della iena, della zebra e dell’orango femmina. Ma dopo pochi attimi, dall’angusta sottocoperta della scialuppa, balza fuori la tigre che a sua volta mangerà la iena.

Eccoli, Pi e il grande felino: faccia a faccia. Occhi negli occhi. Terrore, disperazione, coraggio e tenacia. Pi, per tutto il viaggio, dovrà imparare a convivere con la tigre. Costi quel che costi, prima da una posizione di “vita mia, morte tua” per poi traslare ad una consapevolezza diversa, molto più evoluta e completa.


La reazione psicologica di Pi e il cambio di prospettiva

Il ragazzo inizierà ad occuparsi di lei: da convinto vegetariano imparerà a pescare, uccidere a colpi di martello un grosso tonno, per garantire cibo a sufficienza per la tigre.

Prova ad addomesticarla. Delimita il proprio angolo di barca con la sua urina, proprio come gli animali.

Pi cerca di utilizzare lo stesso canale comunicativo della tigre, la comunicazione non verbale fatta dallo sguardo e dalla mimica facciale. Condivideranno lo stesso sguardo verso la meraviglia dell’oceano di notte, illuminato dal plancton iridescente e accoglierà l’enorme testa di Richard Parker sulle sue esili gambe, pregandola di non morire.

La vita di Pi è un viaggio di ricerca e di costruzione di sé e sono diversi i punti che ho trovato interessanti sul come sopravvivere al dolore e affrontare le avversità inaspettate della vita. Pi, ad un certo punto, dice una frase rivelatrice e illuminante che contiene una grande verità: è proprio l’occuparsi della tigre, della sua sopravvivenza, che gli ha permesso di non perdere la speranza.

Pi riesce a tenere viva l’energia, quella forza indispensabile per sopravvivere e non lasciarsi andare alla disperazione e alla follia.

Richard Parker, la temibile tigre del Bengala, che all’inizio rappresentava solo un pericolo di vita per lui, un dramma e una grossa sventura si rivela la fonte della sopravvivenza psichica.

Pi è troppo impegnato dalla presenza dell’animale per lasciarsi andare.

E’ evidente, e la parte finale del film ne è una conferma, di quanto il felino rappresenti la parte più profonda di PI, il suo lato ombra, il nucleo meno rivelato e più scomodo, presente in ognuno di noi.

La tigre è il nostro doppio, gli aspetti di noi che non amiamo, le emozioni che crediamo essere sconvenienti, gli aspetti che vogliamo negare. Così li scindiamo e li spingiamo, inconsapevolmente, fuori da noi attribuendoli a qualcun altro.

La tigre è la nostra parte arrabbiata, potenzialmente violenta, distruttrice, devastante. Prepotente, feroce.

Ma da questa non possiamo sfuggire, negarla non è la soluzione, sarebbe come scegliere di amputarsi una parte emotiva.


Cosa ci insegna Pi sul come sopravvivere al dolore

Ammettendo che fosse riuscito ad uccidere la tigre, non avrebbe comunque risolto la situazione. Anzi, è proprio quella tensione verso di lei, il prendersene cura ed affezionarsi che gli ha permesso di sopravvivere, mantenendo alto lo spirito.

Non dimentichiamolo mai. La soluzione non è fare la lotta contro noi stessi ma trovare un modo per far convivere tutti i nostri aspetti in un’unica cornice, come la piccola barchetta di PI.


La vita di Pi: come sopravvivere ad un dolore

Tornando alle domande dei pazienti, quindi.. Che si fa?

Innanzitutto si STA, si cerca di non perdere la speranza.

La speranza non è l’ottuso e indigesto ottimismo qualunque cosa accada ma il tenere viva, dentro di sé, l’idea che ci saranno altre possibilità, altre strade. Non solo quella in cui ci troviamo in questo momento. Ci si assume la responsabilità di sé, rinunciando all’idea che qualcuno, al di fuori di noi, sappia la verità.

Ci si prende cura dei propri aspetti, a partire da quelli che non ci piacciono poiché spesso non sono limiti ma potenzialità, come la tigre per PI.


La domanda del paziente

“E allora, tornando al suo lavoro dottoressa, la psicoterapia a cosa mi serve?”

L’aiuterò a ritrovare un senso al suo dolore, costruiremo insieme una nuova narrazione di sé che le permetterà di  liberarsi da copioni rigidi e claustrofobici che le impediscono un cambiamento.

Alla fine del film Pi, ritrovato sulle spiagge di un’isola messicana, verrà interrogato dagli inquirenti della compagnia giapponese del mercantile. La sua storia non viene accettata così ne fornisce un’altra versione.

La iena è il cuoco della nave che userà il corpo del marinaio ferito (zebra) come esca per i pesci. A fronte delle proteste della madre di Pi (l’orango femmina) sarà proprio Pi (la tigre) ad uccidere il cuoco.

A questo punto Pi, rivolgendosi ai suoi interlocutori, chiede: quale storia preferite?

E in qualche modo anche gli spettatori si ritroveranno dentro questo quesito.

Quale è la verità? Io credo che la sola verità possibile sia quella soggettiva, e quindi non assoluta.

La verità può essere solo personale, rintracciabile in quello che ognuno di noi prova e proprio sulla base di queste emozioni si costruisce un senso coerente e buono per sé, con le proprie parole.

Ricontattare la parte più autentica di sé, attraverso un proprio linguaggio personale, permetterà un percorso evolutivo, un sentirsi bene con quello che si è, nel luogo in cui si sta.


Come sopravvivere al dolore: la vita di Pi

La psicoterapia e la costruzione di un senso

Ma allora cosa succede in psicoterapia? Come si traduce questa nuovo modo di narrare se stesso e la propria storia, questo trovare il senso?

Uso le parole del maestro, fondatore della mia scuola di specializzazione, che guidano sempre il mio lavoro:

“In altre parole, è come se lo psicoterapeuta dicesse: “Mi vai bene così come sei, non ti chiedo niente. Non intendo modificarti, non ti critico né ti disapprovo. Sei tu a rivolgerti a me, a denunciare che qualcosa non va, a portarmi i tuoi bisogni inappagati. Io non mi propongo di soddisfarli, sarebbe illusorio, ma sono pronto e capace, se vuoi, ad accompagnarti nella ricerca delle ragioni del tuo malessere. Guarderemo dentro la vicenda che si svolgerà tra di noi, cercheremo in ogni momento di capire che cosa chiedi, perché lo chiedi così, la storia che ci sta dietro. Se tutto andrà per il meglio, verrà il momento in cui potrai parlare la tua lingua e comprendere quella degli altri senza la necessità di me come interprete. “.


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